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giovedì 21 novembre 2024

Due “diritti” applicabili per un solo individuo



Il raffronto tra la giustizia militare e la giustizia ordinaria attraversa il processo di “ordinarizzazione” della prima rispetto alla seconda. Il processo di normalizzazione, da un lato, attraversa il tema del riconoscimento dell’indipendenza della magistratura militare, dotata di un organo di autogoverno, dall’altro si confronta con l’introduzione di norme tipizzate già dal codice di procedura penale ordinario, nel tentativo di assimilare - ove possibile - i due riti.
Ma la “ordinarizzazione” non involge solo profili pan-processuali, bensì avvicina il mondo militare, pur sempre nella valorizzazione degli aspetti appunto “specializzanti”, al mondo comune ponendo al centro sia l’interesse militare e la disciplina, che l’essere umano entro ed oltre lo status militare.
The comparison between military justice and ordinary justice goes through the process of «normalization » of the former in relation to the latter. The process of normalization, on one hand, involves the recognition of the independence of the military judiciary, equipped with a self-governing body, while on the other hand, it deals with the introduction of standardized rules already present in the ordinary criminal procedure code, in an attempt to assimilate, where possible, the two legal systems. However, «normalization» does not only involve overall procedural aspects, but also brings the military world closer to the civilian world, while still emphasizing the specialized aspects. It places both military interests and discipline at the center, as well as the human being within and beyond their military status.
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il rapporto tra il reato comune ed il reato militare: dal principio dell’assorbimento ispirato alla “specialità forte” della giurisdizione militare al concorso formale in ottica equitativa. - 3. Ipotesi applicative e principio dell’assorbimento: verso una “ordinarizzazione” della giustizia militare.
SOMMARIO:
1. Premessa. - 2. Il rapporto tra il reato comune ed il reato militare: dal principio dell’assorbimento ispirato alla “specialità forte” della giurisdizione militare al concorso formale in ottica equitativa. - 3. Ipotesi applicative e principio dell’assorbimento: verso una “ordinarizzazione” della giustizia militare.
1. Premessa
Negli ultimi decenni, in particolare dalla legge 80/1991, si è assistito sempre più ad una normalizzazione della giustizia militare amministrata da giudici togati, al fine di smantellare i residui della cd. “giustizia dei capi” (1) paventata in epoca successiva all’entrata in vigore della nostra Carta Costituzionale in cui la giurisdizione militare era considerata “eccezionale” rispetto alla giurisdizione ordinaria<(2).b r> Il processo di normalizzazione, da un lato, attraversa il tema del riconoscimento dell’indipendenza della magistratura militare, dotata di un organo di autogoverno, dall’altro si confronta con l’introduzione di norme tipizzate già dal codice di procedura penale ordinario, nel tentativo di assimilare - ove possibile - i due riti.
Ma la “ordinarizzazione” non involge solo profili pan-processuali, bensì avvicina il mondo militare, pur sempre nella valorizzazione degli aspetti appunto “specializzanti”, al mondo comune ponendo al centro sia l’interesse militare e la disciplina, che l’essere umano entro ed oltre lo status militare. Precipitato applicativo di questo processo - auspicato dalla dottrina e realizzato dal lavoro del legislatore e della giurisprudenza di legittimità - è il raffronto, sempre più effettivamente legato al “fatto” e non solo alla “norma” tra il reato comune e il reato militare. Sin dagli anni Ottanta, infatti, si è assistito ad una prassi giurisprudenziale molto attenta ad eliminare ogni forma di disparità di trattamento sanzionatorio in ossequio ai principi di equità, ragionevolezza e congruità.
Questo lavoro vuole analizzare le contiguità tra la giustizia militare e la giustizia comune in una sfera al quanto delicata quale quella dei diritti umani e, in particolare, della tutela dell’identità personale e di tutte le sue proiezioni.
2. Il rapporto tra il reato comune ed il reato militare: dall’applicazione del principio dell’assorbimento ispirato alla “specialità forte” della giurisdizione militare al concorso formale di reato in ottica equitativa
Il reato militare, ai sensi dell’art. 37 c.p.m.p. (Codice penale militare di pace) è “qualunque violazione della legge penale militare”: ciò che qualifica un fatto come reato militare è, quindi, la previsione legislativa, dunque, la tipizzazione da parte del legislatore.
A tale definizione normativa, fa da corollario l’art. 263 c.p.m.p. secondo il quale all’Autorità Giudiziaria Militare è riconosciuta la giurisdizione, in sintonia con l’art. 103, comma 3, Cost., sui reati militari commessi dalle persone alle quali è applicabile la legge penale militare.
Con la riforma avvenuta con la legge 167/56 si è dato ampio spazio all’applicazione del principio di legalità in senso stretto affidando, in modo esclusivo, alla volontà del legislatore la definizione di reato militare: secondo una parte della dottrina più recente(3), quindi, si è abbandonato ogni criterio sostanzialistico per abbracciare il più solido criterio formale. Dunque, non la qualifica soggettiva dell’autore del reato - da una parte militari possono commettere reati comuni e d’altra parte estranei alle forze armate possono commettere reati militari - non il tipo di pena prevista, né il solo interesse tutelato dalla norma.
L’art. 1 c.p.m.p. 10, con l’obiettivo di chiarire i limiti soggettivi del diritto penale militare, individua due diverse categorie di destinatari della legge penale militare: i militari in servizio alle armi ed i soggetti considerati tali. Con riferimento alla prima categoria di destinatari, occorre notare che è necessario che il soggetto sia qualificato come militare dalla legge ed eserciti in concreto la qualità di militare: militare, dunque, è colui che oltre ad essere titolare dello status militis deve aver agito nella sua qualità di militare.
Il bene protetto dalle norme penali militari, quindi, ruota intorno allo status militis e, in generale, alla disciplina militare: la disciplina militare é il complesso di norme di comportamento e di valore che regolano lo status militare e quindi i rapporti tra militari, con particolare riguardo al principio della subordinazione gerarchica. Il vulnus all’osservanza dei doveri propri dell’appartenente alle Forze Armate determina l’area penalmente rilevante nell’ambito della giustizia militare. La definizione giuridica viene fornita dall’art. 1346 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (cosiddetto Codice dell’ordinamento militare), secondo cui «la disciplina del militare è l’osservanza consapevole delle norme attinenti allo stato di militare in relazione ai compiti istituzionali delle Forze armate e alle esigenze che ne derivano. Essa è regola fondamentale per i cittadini alle armi in quanto costituisce il principale fattore di coesione e di efficienza. Per il conseguimento e il mantenimento della disciplina sono determinate le posizioni reciproche del superiore e dell’inferiore, le loro funzioni, i loro compiti e le loro responsabilità. Da ciò discendono il principio di gerarchia e quindi il rapporto di subordinazione e il dovere dell’obbedienza. Il militare osserva con senso di responsabilità e consapevole partecipazione tutte le norme attinenti alla disciplina e ai rapporti gerarchici. Nella disciplina tutti sono uguali di fronte al dovere e al pericolo».Ciò che, in sostanza, qualifica la legge penale militare è l’interesse protetto: la disciplina e l’ordine militare.
A questo punto, è necessario precisare che seppur tutte le norme incriminatrici militari proteggono interessi tipici del servizio, della disciplina o dell’Amministrazione militare, sono numerose le ipotesi di compromissione di beni giuridici protetti anche da reati comuni.
Queste ultime ipotesi, invero, cosiddetti reati obiettivamente militari - i cui elementi costitutivi sono previsti, in tutto o in parte, come reato dalla legge penale comune o perché offendono un interesse prevalentemente militare o perché solo estrinsecamente collegati con l’area degli interessi militari - rappresentano il nucleo maggiormente problematico.
I reati obiettivamente militari si differenziano da quelli esclusivamente militari: ai sensi del comma 2 dell’art. 37 c.p.m.p., è esclusivamente militare se “nei suoi elementi materiali costitutivi, non è in tutto o in parte preveduto come reato dalla legge penale comune”.
Mentre nel caso dei reati esclusivamente militari il fatto è sussumibile in modo esclusivo nell’alveo della norma militare, nel primo caso vi è contiguità dettata da un interesse che ad ampio raggio involge non solo la sfera della disciplina militare e, quindi, dello status militare, bensì gli interessi comunemente protetti dalla legge penale comune: Stato, Pubblica Amministrazione, persona, patrimonio. Ed è proprio questa contiguità - talvolta sfociante nella cosiddetta “specialità bilaterale” - che genera problemi ermeneutici di non poco rilievo se si considera che un fatto punito come reato militare può violare al contempo anche una norma penale comune astratta con conseguenze in punto di riparto di giurisdizione.
Il lavoro della giurisprudenza di legittimità è stato incentrato, proprio sulla scia della cosiddetta “ordinarizzazione” della giustizia militare, sull’obiettivo di evitare zone franche o forme attenuate o aggravate per reati commessi da militari con elementi condivisi dalle speculari fattispecie penali comuni.


3. Ipotesi applicative e principio dell’assorbimento: verso una “ordinarizzazione” della giustizia militare
La normativa introdotta in materia di insubordinazione e di abuso di autorità dalla legge 689/1985 ha dimostrato come la specializzazione “forte” del diritto penale militare non possa ex se escludere - aprioristicamente - forme di concorso formale con i reati comuni vicini: il solo interesse militare non può e non deve assorbire in modo totalizzante tutti gli interessi eventualmente lesi da una condotta di abuso o, comunque, maltrattante. Non può nemmeno trascurarsi che taluni dei reati comuni presentano, quali elementi specializzanti, le qualifiche soggettive dell’autore del reato, cosiddetti reati propri: proprio la presenza di questi elementi specializzanti può avvicinare il mondo militare al mondo comune, si pensi, ad esempio, alla qualifica di pubblico ufficiale o qualifiche militari eventualmente rivestita dall’autore del reato o dalla persona offesa.
In questi casi, in applicazione dei principi elaborati dalla Corte di Cassazione Penale, in materia di concorso apparente di norme, si è raggiunto un punto di svolta nel rapporto tra le norme penali comuni e le norme penali militari senza svilire la naturale specialità delle seconde rispetto alle prime.
In passato, infatti, la specialità dettata e dalla qualifica soggettiva - qualifica di militare dell’autore del reato e/o della persona offesa, sia esso superiore gerarchico o inferiore gerarchico - e dalla natura precipua dell’interesse protetto - ordine militare, disciplina militare, rapporto gerarchico - giustificava spesso l’applicazione della sola legge speciale, in applicazione dell’art. 15 c.p. secondo cui: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. Questo assorbimento, finalizzato ad evitare inutili duplicazioni processuali dinnanzi a due Autorità giudiziarie diverse e ad impedire ipotesi vietate di bis in idem, veniva talvolta giustificato da esigenze cd. equitative, ritenendo maggiormente equa l’applicazione della sanzione penale militare ad un fatto commesso da un militare in servizio.
Questa impostazione generava talvolta storture.
Si pensi ai casi in cui una norma penale comune punisca un fatto -sussumibile anche sotto la fattispecie militare - con una pena più grave rispetto alla pena comminata dalla legge militare.
Ebbene, in queste ipotesi, pur essendo in presenza di un caso di specialità tra due fattispecie che presentano i medesimi elementi costitutivi, ma con un quid pluris che rende speciale e, dunque, applicabile una delle due, si verificherebbe un paradosso: il fatto verrebbe punito con una pena inferiore generando una disparità di trattamento ingiustificata perché non corrispondente al giudizio di disvalore penale dato dal legislatore.
Questa aberrazione giuridica non potrebbe mai essere ammessa in uno Stato di diritto governato da un principio di legalità formale-sostanziale. Da questo ragionamento analitico, infatti, si è preso spunto per teorizzare e, quindi applicare, le coordinate ermeneutiche dettate dalla giurisprudenza di legittimità per i reati comuni, anche ai reati militari.
Il rapporto tra reato militare e reato comune è problema tutt’altro che dogmatico, ponendo importanti considerazioni in punto di riparto di giurisdizione e competenza per connessione.
L’art. 13 c.p.p. disciplina, unitamente all’art. 12 c.p.p., ulteriori ipotesi di connessione tra procedimenti appartenenti a giudici ordinari e speciali; in particolare, in caso di concorrenza tra procedimenti aventi ad oggetto reati comuni e reati militari, “la connessione di procedimenti opera soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare, avuto riguardo ai criteri previsti dall’articolo 16, comma 3. In tale caso, la competenza per tutti i reati è del giudice ordinario”. È chiaro che la connessione tra procedimenti - secondo i principi dettati dal codice di rito - opera solo nelle ipotesi in cui trattasi di reati ontologicamente diversi e sussista, quindi, un concorso di reati.
A tal fine, appunto, viene in rilievo l’annoso problema della identificazione dell’idem: l’operatore del diritto deve guardare alla dimensione storico-naturalistica del fatto, agli elementi strutturali della fattispecie legale astratta, al criterio di valore incentrato sul bene giuridico protetto.
La risoluzione del problema della unità e pluralità di reati (4) ci consente di capire quando abbiamo una pluralità di condotte e quando siamo in presenza di un’unica condotta; quando abbiamo un reato unico ma plurisussistente; quando, in presenza di una sola condotta, abbiamo plurime violazioni di leggi penali, anche di natura diversa; quando il concorso è formale o materiale oppure il concorso è apparente.
L’unità spazio-temporale non può ex se dirimere la questione attinente alla configurazione di un reato unico o una pluralità di reati; talvolta è il legislatore a determinare forme di unità normativa, accomunando più condotte in un’unica fattispecie, si pensi ai reati abituali oppure a tipizzare clausole di riserva o di sussidiarietà, scegliendo a priori quale norma applicare. Per risolvere problemi applicativi, pertanto, la giurisprudenza di legittimità negli ultimi decenni ha formulato criteri idonei ad identificare i casi di idem - stessa materia - e individuare la norma applicabile.
La questione si pone, soprattutto, per i casi in cui uno stesso fatto rientra in più fattispecie legali astratte, anche di natura diversa (ad esempio, legge penale comune e legge penale speciale/militare).
Se a priori si identifica un idem, dunque, un fatto che - per coordinate spaziali e temporali nonché circostanziali - sembra essere inquadrabile in più violazioni, è opportuno individuare la norma prevalente, al fine di evitare ingiuste duplicazioni con consequenziale violazione del divieto del ne bis in idem ex art.
649 c.p.p. che sancisce il divieto di nuovo giudizio per l’imputato assolto o condannato in via definitiva per lo stesso fatto, anche se considerato diversamente per titolo, grado o circostanze.
È chiaro che la sussistenza di un idem presuppone una valutazione di segno negativo circa il concorso di reati: l’art. 15 c.p., sancendo il principio di specialità, impone che se “più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.
In ordine al concetto di stessa materia la dottrina oscillava tra l’identità dell’oggetto giuridico - stesso bene protetto - e stesso fatto storico-concreto. Entrambi i riferimenti appaiono inadeguati nella misura in cui trascurano alcuni dei corollari del principio di legalità: tipicità, offensività e tassatività. La questione del concorso apparente, infatti, non può prescindere da una attenta analisi delle fattispecie legali in astratto richiamate dal fatto storico: il raffronto deve avvenire non tenendo conto del solo del fatto nella sua dimensione storico-naturalistica, né del bene protetto. Il raffronto, innanzitutto, deve essere strutturale.
L’identità del fatto contemplato da più norme involge più fattispecie tipiche in relazione di specialità unilaterale o bilaterale: la specialità si ha quando una norma astratta ha tutti gli elementi costitutivi di un’altra norma astratta - cd. norma generale - con un elemento in più specializzante. I cd. “cerchi concentrici” descritti da Mantovani nella sua Bibbia del diritto penale: il quid pluris costituisce una species di un corrispondente elemento generico della norma generale oppure un elemento aggiuntivo estraneo alla fattispecie generale. In queste ipotesi la specialità è unilaterale: la norma generale contiene quella speciale, ma non viceversa(5): lex specialis derogat legi generali.
Nella specialità bilaterale o reciproca, invece, le norme sono contemporaneamente l’una generale e speciale perché hanno elementi comuni, elementi specifici ed elementi generici rispetto all’altra. Nella specialità reciproca solo una delle ipotesi rientranti in una fattispecie integrano anche l’altra e viceversa: questa coincidenza può essere una forma interferenza - ad esempio per la condotta - crea un idem formale con esclusione del concorso di reati.
Ad esempio, in relazione al reato militare di insubordinazione, art. 186 c.p.m.p. e art. 189 c.p.m.p., si è posto il problema del rapporto con il reato comune di oltraggio semplice o aggravato dalla minaccia: la giurisprudenza prevalente, in passato(6), ha inglobato il reato comune in quello militare per l’esistenza di un elemento in più dato dal rapporto di subordinazione militare.
Invero, in riferimento al reato di insubordinazione si è assistito ad una evoluzione della giurisprudenza nel senso di non riconoscere aprioristicamente la specialità del reato militare, valorizzando la plurioffensività dei reati comuni, la cui ampia portata consentiva di includere anche l’ipotesi di insubordinazione ex art. 186 c.p.m.p. per specialità reciproca per coincidenza tra fattispecie ed elemento particolare. Il dolo specifico dei delitti ex artt. 336 c.p. - 337 c.p. consente di attribuire un maggiore disvalore penale al fatto e, in un’ottica di politica criminale, valorizza la volontà del legislatore di punire più gravemente ipotesi del genere rispetto alle corrispondenti ipotesi prevedute dalle leggi militari.
Infatti, sarebbe irragionevole non applicare - in un caso di specialità reciproca - il reato punito più gravemente: la soluzione opposta, infatti, creerebbe zone franche e cd. fori privilegiati delle Forze Armate (7)(8) consentendo ad un appartenente a corpi militari una sanzione più lieve, allontanandoci del tutto dal processo di normalizzazione della giustizia militare.
In passato, anche in ambito militare, si è fatto ampio ricorso a criteri di valore: le teorie pluralistiche, infatti, ritenendo insufficienti il solo criterio di specialità, hanno fondato la risoluzione del concorso apparente tra reati sul criterio di sussidiarietà e criterio di consunzione per inaugurare il cd. principio dell’assorbimento: la norma principale esclude la norma sussidiaria quando tutela un grado inferiore dell’identico bene protetto: la norma principale esaurisce l’intero disvalore del fatto. Questo criterio attribuisce all’operatore giuridico il potere di “pesare” il disvalore penale del fatto.
L’assorbimento si fonda, quindi, su criteri instabili e privi di certezza giuridica perché non ancorati ad alcuna norma giuridica ma appoggiati alla sola valutazione meramente fattuale compiuta dall’interprete.
Il largo uso di questi criteri, soprattutto in passato, ha dato ampio spazio a storture del sistema anche in ambito di giustizia militare, come ampiamente argomentato.
Autorevole dottrina(9) ha, infatti, ribadito che: “Il meccanismo dell’assorbimento - in virtù del principio di specialità (reso probabilmente, ancor più coerente dal punto di vista giuridico, dalle caratteristiche di specialità dell’ordinamento militare, come detto) … non sempre ciò risulta avere effetti di garanzia nei confronti dell’individuo”.